Le persone affette da AIDS sono vittime di un ingiustificato stigma sociale che può essere superato solo abbandonando superficiali pregiudizi. E poi ci sono piccole storie che svelano un mondo
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È bene iniziare esplicando il termine “pregiudizio”, ovvero un’opinione concepita sulla base di convinzioni personali, senza conoscenza diretta dei fatti o delle persone, tale da condizionare la valutazione e indurre quindi in errore.
È ormai all’ordine del giorno giudicare senza sperimentare, forse perché è più facile abbandonare in partenza piuttosto che mettersi in gioco e superare gli ostacoli.
Ed è proprio quello che è successo a me, che stavo per precludermi di una grandissima esperienza formativa, quando, nell’ambito del mio Servizio Civile, mi è stato chiesto di essere presente nella Casa comunità che ospita persone affette da AIDS. Non ero molto favorevole alla cosa, e non per motivi sanitari.
Abbandonare i pregiudizi
Infatti, per cattiva o scarsa informazione, molti non sanno che l’HIV non si contagia con comportamenti sociali quotidiani. È del tutto privo di rischi stringere la mano a una persona sieropositiva, abbracciarla, condividere con essa cibo, abiti o altri utensili (tranne quelli che possono avere avuto contatto occasionale con il sangue, come rasoi e spazzolini da denti). Una persona sieropositiva non trasmette il virus con la tosse, starnutendo, o nuotando nella stessa piscina. I malati di Aids sono continuamente sottoposti a cure mediche e terapie che consentono loro di svolgere una vita normale.
Quando sono entrata per la prima volta nella Casa, ho avuto l’impressione di persone tristi e malinconiche, ma al posto di chiedermi “cosa posso fare per strappargli un sorriso?”, avevo quasi voglia di fuggire: non era paura fisica, ma timore di non essere all’altezza, di non riuscire ad aiutare queste persone, paura che quel tipo di servizio non fosse adatto al mio essere.
Poi ho scoperto che la Casa è una famiglia; al suo interno vivono quattro protagonisti con la vita segnata da grandi e complesse storie. Sono persone che tra loro non hanno nulla in comune, ognuna è diversa e speciale: l’unica cosa ad accomunarli è la particolare patologia, che oltre a comportare sofferenza fisica, li spinge a chiudersi in sé stessi e a non avere relazioni, a causa del pregiudizio che molti hanno nei confronti di un soggetto in Aids.
Piccoli sogni, immensa felicità
Anche loro però hanno dentro di sé desideri inespressi e coltivano sogni nascosti, alcuni difficili da realizzare o addirittura impossibili, ed altri, invece, piccoli e a portata di mano, che possono donare grande felicità. L’ho capito quando Lucia (nome di fantasia) mi ha confessato: “Ho il desiderio di visitare Messina almeno una volta nella vita, non ci sono mai stata”. Un po’ sorpresa, vista la semplicità della richiesta, le ho risposto di getto: “Certo, se i responsabili della Casa ci autorizzano, ti accompagno volentieri”.
Così iniziamo ad organizzare, progettiamo la realizzazione di questo suo miraggio, che, a pensarci bene, si tocca con un dito. Ed è proprio vero, perché dal terrazzo della Casa, Messina si può ammirare e quasi toccare, e Lucia chissà quante volte ha chiuso gli occhi e ha immaginato di andarci, di prendere la nave e partire per trascorrere una giornata alternativa.
La vena di pessimismo che accompagna la sua vita la portava a non essere molto fiduciosa sulla possibilità di realizzare questo grande (per lei) viaggio.
Così, quando è arrivata la risposta positiva, i suoi occhi si sono riempiti di stupore e ha iniziato ad aspettare questo fatidico giorno con l’emozione e la meraviglia che prova un bambino.
Finalmente il 5 ottobre il sogno di Lucia si è realizzato e allora si parte.
Ci vediamo la mattina alle 8 in punto e andiamo a prendere l’aliscafo al porto; una volta arrivate a Messina facciamo colazione in uno dei bar più famosi di Piazza Cairoli e iniziamo la nostra passeggiata che, con qualche pausa di ristoro, dura fino al pomeriggio. Alle 16.40 prendiamo l’aliscafo e torniamo a Reggio, stanche ma soddisfatte della giornata passata.
Molti potranno pensare: e che sarà mai un’andata a Messina? Cioè qualcosa che per chi vive a Reggio è abituato a fare fin da bambino. Questa giornata particolare mi ha portata a riflettere sul fatto che spesso le piccole cose che per molti sono all’ordine del giorno e vengono sottovalutate o date per scontate, ad altri portano gioia e stupefazione.
Bisognerebbe vivere così, amando le piccole cose che donano un senso all’esistenza e permettono di guardare il mondo con gli occhi di un fanciullo.
Ho imparato e sto imparando molto da questa esperienza nella Casa. Ho imparato a non lasciare indietro gli altri perché li reputiamo diversi o pericolosi. Ho scoperto che una volta superato il pregiudizio e la paura, inizia la sfida, una sfida che ogni mattina mi pongo: aiutare il prossimo, sostenere i più deboli e cercare di portare un pizzico di gioia nella loro vita. È così, un piccolo passo alla volta, posso dire di sentirmi anch’io parte della famiglia della Casa.
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