Ennesima rissa sul Lungomare di Reggio e via, tutti a pontificare su Facebook, compresi rappresentanti istituzionali che pure qualche domanda dovrebbero farsela circa le responsabilità. Non è più tempo di comodi post da indignati seduti in poltrona, ma di risposte forti sul piano sociale ed educativo
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Ancora un pestaggio nelle ore della Movida reggina: viene in mente Achille Lauro e la sua “Ci son cascato di nuovo”. Quello che è successo in via Marina a Reggio Calabria, non è stata una semplice lite tra ragazzi, ma un vero e proprio pestaggio, tanti contro uno. Le liti tra gruppetti o piccole bande di ragazzi ci sono sempre state, non è una novità.
Cosa cambia adesso? Cambia l’assiduità di queste situazioni, cambia il modo (nel caso specifico un intero “branco” contro una sola persona, azione che in altri tempi sarebbe stata bollata come infamante).Cambia che tutto viene registrato dagli smartphone, pubblicato sui social, condiviso e commentato. E allora tutti pronti a sentenziare, a cercare di capire, a fare delle analisi educative, sociali, a ipotizzare soluzioni, a discutere di responsabilità genitoriale, di controlli, e chi più ne ha più ne metta.
In tutto questo resta l’atto violento di gruppo che non deve essere giustificato dando la colpa al “disagio giovanile” o all’”assenza di desiderio”, ma perseguito e sanzionato; e, per restare in ambito familiare, va detto che la violenza non ha identità genitoriale, ma sicuramente ha responsabilità genitoriale.
Qui viene in soccorso il filosofo Galimberti che ci ricorda che “i giovani vivono in uno stato di povertà culturale e precarietà che spesso sfocia in episodi di violenza e bullismo dovuti a questo status di incertezza, la letteratura narra storie per farci conoscere cos’è l’amore, il dolore, la noia, il senso della vita… Ma, quando non si conoscono i sentimenti, il terribile è già accaduto”.
La verità è che noi “grandi” siamo bravi a commentare su Facebook, ma molto meno bravi a trovare delle soluzioni. Stiamo vivendo un periodo in cui dovremmo far capire ai nostri ragazzi e ragazze che la vita reale è quella che stanno vivendo, che fare un video mentre si riprende un pestaggio e riderci dietro mentre si registra non è goliardico, ma stupido ed addirittura complice. Ma noi non sappiamo dare l’esempio, non ci riusciamo proprio! Perché al contrario dei giovani che hanno voglia di viverla questa vita, noi ci nascondiamo dietro uno schermo, pronti a giudicare senza portare soluzioni, proposte, alternative concrete, azioni mirate a prevenire.
Reggio vive in un momento in cui l’unico pensiero che hanno i nostri giovani è scappare da questa terra, andare più lontano possibile. Si continua a trasmettere loro il messaggio che “qui non c’è niente”, della delega, della irresponsabilità verso la comunità, e di questo, mi dispiace dirlo, siamo tutti responsabili, soprattutto le istituzioni, che sono lontane anni luce dal mondo giovanile, non riescono a capire e soprattutto ad arrivare ai bisogni dei ragazzi, a dare e proporre alternative concrete e soprattutto ad ascoltarli, ad ascoltarci (metto in mezzo anche la mia di generazione).
Mancano spazi di aggregazione, spazi aperti con attività culturali, una comunità educante: ma qui torniamo punto e a capo, perché per essere e diventare comunità educante bisogna essere innanzitutto comunità di valori e, anche, comunità educata al rispetto delle regole e dell’altro.
Come vogliamo agire, dunque? Cosa vogliamo dare a questi ragazzi e ragazze? Cosa vogliamo insegnare loro, come vogliamo parlare di genitorialità e di competenze genitoriali? Perché osservo che sta diventando troppo semplice dare la colpa alle famiglie senza pensare e cercare di capire la situazione che vive quel determinato ragazzo o ragazza, la loro storia, il loro vissuto, il loro contesto sociale e culturale. La violenza è sempre dietro l’angolo, non bisogna sbirciare, ma occorre entrare nel luogo della violenza per sopprimerla con l’ascolto.
Dunque, cosa vogliamo fare?
Un percorso possibile è quello intrapreso a Napoli su impulso dell’arcivescovo Don Mimmo Battaglia ( ne abbiamo parlato alla prima uscita di NEM con l’intervista curata dal nostro Direttore) : un Patto educativo tra Scuola, Servizi Sociali Comunali, Parrocchie, Enti, Fondazioni, Cooperative, e ogni altro ente impegnato nel mondo dell’educazione e dell’inclusione sociale. Un intervento finalizzato a promuovere forme di accompagnamento, cura e partecipazione di ragazzi e giovani e delle loro famiglie, adeguate a contrastare il degrado umano conseguente alla condizione di emarginazione sociale e povertà economica e morale. Perché è necessario che nelle situazioni più delicate e multiproblematiche le famiglie siano affiancate nella cura educativa da persone appassionate, formate, esperte di relazione, corresponsabilità e capaci di coinvolgimento.
Per le istituzioni e le realtà educative locali – ed in primo luogo per il Comune, le scuole e le parrocchie – non è più tempo di indignati post su Facebook e/o di reprimende moralistiche. Questo è il tempo della responsabilità ,dell’azione e della collaborazione. E se non si è in grado di progettare autonomamente, si abbia almeno la capacità e l’umiltà di replicare quello che di buono si fa altrove.
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