Malgrado i durissimi colpi inferti alla ‘ndrangheta da magistratura e forze dell’ordine, e malgrado la resistenza di tante aziende che si sono ribellate alla schiavitù delle estorsioni, la strada per liberare il territorio e l’economia da racket e usura è ancora lunga, e richiede un ruolo più incisivo delle istituzioni e l’impegno diretto dei cittadini-consumatori
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Qualche anno fa un commerciante venne nella sede di Libera, e, dopo averci chiesto se fossimo disponibili ad ascoltarlo senza che ci desse le sue generalità, con gli occhi pieni di rabbia e frustrazione, ci fece questo racconto.
“Avevo deciso di aprire una attività nel mio quartiere. Durante i lavori, un operaio mi ha domandato: Principale, avete parlato con chi di dovere? Io gli ho risposto di no. Dopo qualche giorno dall’ inaugurazione il locale è andato completamente distrutto da un incendio doloso. Allora sono andato a trovare una persona che sapevo essere considerata molto “influente” in zona. Alle mie rimostranze che nessuno era venuto a chiedere nulla, mi ha risposto: non eravamo noi a dovere venire da voi, al contrario eravate voi che dovevate chiedere il permesso “prima mi ‘mpicciati nu’ chiovu” (prima di mettere un chiodo- ndr).
Dopo essersi sfogato, al nostro invito di presentare denuncia come primo passo per poterlo tutelare, rispose piangendo: “Non posso fare niente, mi hanno minacciato, e, per farmi capire che ci possono andare di mezzo anche i miei figli, mi hanno detto che nella scuola dove vanno i ragazzi la ditta che sta facendo i lavori si è comportata bene, così tutti possono stare tranquilli, anche i miei figli che frequentano quella scuola”.
Il controllo del territorio
Un episodio tra i tanti, che mi è tornato in mente dopo le recenti indagini e le sentenze della magistratura che documentano, se ancora ce ne fosse bisogno, la persistente pervasività del racket in città ed in regione.
Per la ‘ndrangheta sappiamo che il pizzo non è la voce più importante nelle sue entrate. Certamente non è paragonabile ai proventi del traffico della droga o all’accaparramento degli appalti pubblici.
Se non ha un rilevante valore economico, la pratica delle mazzette rappresenta ancora una delle modalità attraverso la quale le cosche da sempre esercitano il controllo dei territori ed in particolare delle imprese che vi operano. Tanto è vero che non di rado, quando il titolare di una impresa deve aprire una attività commerciale o effettuare dei lavori deve chiedere preventivamente “il permesso“ ai capi ‘ndrangheta di quel quartiere, come nel caso dell’episodio prima citato.
A ciò si aggiunge molto spesso, per le imprese più grandi, anche il “suggerimento” di avvalersi per determinate lavorazioni di ditte “amiche”, ovvero di assumere “bravi lavoratori” opportunamente segnalati; e per le ditte più piccole il “suggerimento” di rifornirsi per i materiali presso negozi e aziende per così dire di “fiducia”.
Sostenere le imprese che non si piegano
Per questi motivi, una delle strategie concrete di contrasto alla ‘ndrangheta è senz’altro quella di sostenere gli imprenditori ed i commercianti che si rifiutano di pagare il pizzo.
In atto solo una parte minoritaria di essi ha scelto di ribellarsi, a fronte della stragrande maggioranza che si è invece piegata o che subisce il ricatto mafioso.
Le testimonianze coraggiose di Tiberio Bentivoglio, Filippo Cogliandro, Rocco Mangiardi, Gaetano Saffioti, Antonio De Masi ed altri ancora che hanno avviato una rivolta contro il pizzo, non sono state finora sufficienti a cambiare la storia dei nostri territori.
Lo stesso è avvenuto per le aziende e le cooperative sociali che, per non piegarsi al ricatto mafioso, subiscono continuamente attentati ed intimidazioni e sono diventati bersaglio da colpire perché simboli scomodi di una possibile ribellione di massa che alla ‘ndrangheta fa paura.
La sfida allora (soprattutto nel Mezzogiorno, ma non solo) è quella di passare dalle testimonianze simboliche e circoscritte ad una vera e propria rivolta contro questa forma di oppressione che lede la dignità delle persone ed il diritto di fare impresa in modo libero, nella consapevolezza che non si può delegare la lotta solo allo straordinario lavoro di magistratura e forze dell’ordine, che in questi anni hanno inflitto colpi durissimi alle cosche.
Le associazioni antiracket
Un contributo fondamentale in questa direzione viene dalle associazioni di imprenditori come quella promossa da oltre un decennio dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti, che ha dato vita nel nostro territorio all’associazione antiracket Reggio-Libera -Reggio, presente soprattutto nel settore del commercio e dei servizi, che ha adottato uno slogan che è al tempo stesso un progetto di vita e di un nuovo modo di fare imprenditoria: La libertà non ha pizzo.
Una esperienza avviata tra non poche difficoltà, che oggi vede coinvolte oltre settanta aziende aderenti, alle quali Libera ha cercato di offrire ascolto ed accompagnamento, favorendo il mettersi in rete per vincere la solitudine e l’isolamento.
Mentre bisogna lavorare affinché un numero sempre maggiore di imprese trovino la forza ed il coraggio di ribellarsi, occorre avere la consapevolezza che il mosaico antiracket sarà completo solo se a magistratura, forze dell’ordine ed imprese sane si aggiungeranno altri due tasselli.
Il ruolo fondamentale dei cittadini
Il primo è quello dei cittadini, che devono scegliere di diventare consumatori responsabili, partecipando alla campagna Reggio-Libera-Reggio, scegliendo di boicottare le imprese mafiose o dei loro prestanome, decidendo di fare gli acquisti presso i commercianti che non pagano il pizzo o che essendo state vittime di estortori hanno denunciato. Una modalità concreta di contrasto al potere mafioso, che tocca le loro tasche e che può erodere il consenso di cui godono.
L’altro tassello è quello delle istituzioni pubbliche.
In primis delle Prefetture che, superando lungaggini burocratiche insopportabili, devono garantire tempestivamente a chi denuncia quello che le norme attuali prevedono per le vittime di racket ed usura.
E poi il Parlamento, il Governo, le Regioni e Comuni, che nell’ambito delle rispettive competenze devono rivisitare le leggi ed i regolamenti esistenti per individuare forme di sostegno più adeguate a chi denuncia e resiste, ivi compresa la possibilità di destinare beni ed aziende confiscate anche alle vittime del racket.