Arghillà è ormai, per definizione, il quartiere-ghetto di Reggio Calabria. Un posto che riassume in sé tutte le contraddizioni politiche, amministrative e sociali di una città dove l’attesa opaca ha preso il posto della speranza del cambiamento. Con questa intervista ad Eleonora Scrivo, referente di ActionAid, intendiamo avviare un osservatorio permanente su questa realtà
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Eleonora, tu fai parte di ActionAid, una delle organizzazioni che da anni sono presenti ad Arghillà, in quello che è sicuramente definibile come il peggior quartiere ghetto della città. Cosa sognano, se sognano, i bambini di Arghillà?
“Nel mio sogno di quartiere– ha scritto Sofia- al posto di queste mosche e della
spazzatura, ci sta un laghetto azzurro con dentro delle papere che giocano con delle rane.
E nessuno fa loro del male, perché quando c’è l’acqua nelle case o nelle fontanelle,
nessuno è più nervoso e ci amiamo tutti”. Lo ha scritto e disegnato durante uno dei tanti
laboratori che volontari e associazioni realizzano sul territorio, letteralmente per strada,
intendendo cioè, i cortili e gli spazi tra le case popolari, pieni di spazzatura, insetti e
carcasse di auto e dandosi appuntamenti nel comparto 2 o 4 o 5, con riferimenti empirici,
dovuti alla mancanza di indirizzi e numeri civici.
Anche la toponomastica, qui, è oggetto di una tensione morale, un obiettivo minimo di civismo posto come ennesimo traguardo ambito.
Anni fa, infatti, adulti, bambine e bambini furono coinvolti in un processo partecipato per
l’individuazione delle figure a cui intestare le vie: scelsero nomi della letteratura calabrese,
molte donne (peraltro, una minoranza assai esigua nel panorama toponomastico della
città e rappresentata, nella quasi totalità, da personaggi mitologici o religiosi), ma ancora
adesso, per procedure burocratiche macchinose, il quartiere aspetta che le targhe, già
pronte, vengano posizionate.
Una delle tante attese di Arghillà, potremmo dire niente di nuovo, in fondo…
L’attesa opaca è l’unità di misura di questo luogo. Si aspetta che ci sia l’acqua nei piani
alti, che al mattino ci si possa lavare per poter andare a scuola, che si raccolga la
spazzatura, che si risponda alle richieste di regolarizzazione delle pratiche sulle
occupazioni abusive, che i fondi Pon e Pnrr vengano investiti, per cambiare volto al
quartiere.
Ma, nel frattempo, bambine e bambini, tante e tanti ad Arghillà (in netta controtendenza all’andamento demografico cittadino), crescono in ambienti familiari deprivati, con orizzonti limitati da cui sono assenti istruzione (a parte la scuola dell’obbligo, spesso frequentata a singhiozzo) o percorsi di formazione e in cui, soprattutto le prospettive di empowerment e autodeterminazione, in ottica di genere, appaiono drammatiche. Per le giovani, infatti, già in età prepuberale, sembra essere ineluttabile un destino di madri di famiglie numerose, senza alcuna prospettiva di autonomia e occupazione.
Sono anni che si parla di emergenza Arghillà, come se ne esce?
Pensare concretamente ad Arghillà significa, da una parte, intervenire tempestivamente su situazioni che non vanno considerate più come emergenziali, con il rischio di saturare in una sola dimensione di bisogno estremo diritti fondamentali, creando così una spirale di dipendenza; dall’altra agire su una programmazione di lungo/medio periodo che implichi doverosamente un patto educativo, in cui la comunità coinvolta sia estesa e composita, anche al di fuori del territorio di riferimento.
La scuola resta il centro di questo tipo di programmazione, ma va supportata
adeguatamente e alleggerita anche di funzioni e responsabilità soverchie che, spesso, le
sono state attribuite esclusivamente.
Il non poter contare sul servizio mensa e sul tempo prolungato ha un gravissimo impatto in termini di inclusione e di contrasto alle disuguaglianze, anche perché continuare a insistere, in questi contesti e con questa realtà, sul ruolo della famiglia appare solo retorica, visto per esempio quanto pesi l’analfabetismo di ritorno. Delegare ai genitori alcune pratiche significa perpetuare l’esistente; invece programmare, e non solo progettare, degli interventi per coinvolgere gli adulti in maniera graduale, è necessario.
Ragionare, per esempio, su un lavoro per creare leader di comunità sui temi più sentiti, come il diritto all’abitare, permetterebbe un percorso progressivo di protagonismo anche per adulti, in particolare donne.
Qualcuno lamenta che Arghillà è ormai diventato un “progettificio”…
Uscire dall’ottica parcellizzata dei progetti, vuol dire rendersi mediatori, perché le persone che vivono il quartiere diventino “comunità dei desideri” e non solo del bisogno. Per combattere le disuguaglianze educative, per esempio, è prioritaria la creazione di luoghi fisici di accoglienza che non siano, tout court, doposcuola in cui fare i compiti, ma strutture dove sperimentare creativamente, attraverso la musica, lo sport, la pittura, la danza, la gamification (se non sai cos’è, clicca QUI) e, quindi, sviluppare competenze in maniera alternativa e, nello stesso tempo, esprimere quei talenti che si intuiscono già spiccatamente nelle esperienze di progetto, ma che, senza cura continua, vanno persi nella battaglia quotidiana per la sopravvivenza. L’esperienza del progetto quadriennale OpenSpace, finanziato dall’impresa sociale Con i bambini e con capofila ActionAid, svoltosi anche nell’istituto comprensivo Radice Alighieri, ha evidenziato come sia fondamentale lavorare sulla concezione dello spazio fisico in cui vivono bambine e bambini e adolescenti.
Coprogettare con loro la rigenerazione, significa favorire forme alternative di
apprendimento, sperimentare e rafforzare il senso civico e la capacità di collaborazione,
dare continuità e sostenibilità a interventi, altrimenti limitati nel tempo. Dal modello
Openspace è nata, sempre alla Radice Alighieri, per esempio, l’esperienza della biblioteca scolastica gestita da un comitato di genitori e insegnanti che, a breve, sarà inaugurata e aperta anche in orario extrascolastico, a beneficio del territorio.
La scuola al centro di tutto, quindi. Ma è sufficiente?
Certo che no. Sempre in questa direzione, sarebbe preziosa l’attivazione del centro civico Ciprioti, ex sede della scuola primaria e secondaria di primo grado, ad Arghillà, da anni chiuso ed esposto, come già successo alla palestra mai collaudata, al vandalismo e che potrebbe essere affidato, con un patto di collaborazione, ad un’ampia compagine di realtà presenti sul territorio e diventare un centro di aggregazione e di protagonismo giovanile.
Inoltre, è fondamentale, potenziare l’accesso alla scuola materna e rendere regolare e numerosa la frequenza, al fine di sviluppare meglio competenze e livello di scolarizzazione, coinvolgendo sin da subito le famiglie in un processo di condivisione di obiettivi e attività di quartiere; così come promuovere esperienze già collaudate, in altre realtà simili, come l’affido culturale, consentendo, attraverso la collaborazione con famiglie di altri quartieri, l’accesso di bambine e bambini ad occasioni formative altrimenti precluse, come la visita a musei, biblioteche, cinema e teatri.
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