Educare è un atto di comunità

Si parla tanto dei giovani, ma si parla poco e niente con i giovani, gli adulti latitano e la famiglia non basta. L’insegnamento di Don Italo Calabrò

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L’altro giorno ,mentre partecipavo all’ennesimo incontro di cinque ore dove i vari partecipanti (operatori del terzo settore, insegnanti, genitori,ecc.)  ripetevano come un ritornello che  “bisogna costruire una comunità educante”, ho avuto come un flash mentale. Il mio cervello si è spostato altrove, e mi è tornato in mente uno dei discorsi più incisivi di don Italo Calabrò, che, parlando con gli allora studenti del Liceo Scientifico Vinci, li invitava con parole chiare a non delegare la propria vita agli altri. Di essere, in qualche modo, protagonisti delle scelte all’interno di una comunità.

Nei vari tavoli tematici e convegni, si sente spesso parlare dei giovani ma mancano proprio i giovani. E mi è venuto da pensare che Don Italo parlava dei giovani, ma, soprattutto, parlava con i giovani. Dava loro fiducia anche attraverso parole “dure”, che scuotevano le coscienze, o che oggi definiremmo capaci di stimolare il pensiero critico.

Oggi mancano punti di riferimento al di là della famiglia

La famiglia è al centro di ogni discorso sul supporto alla genitorialità, sul cambiamento che sta attraversando, su cosa intendiamo oggi per “famiglia”. Ma cresciamo convinti che basti la famiglia a tenerci al sicuro. E per un po’, è vero.

Poi arriva un momento, spesso precoce, in cui i giovani iniziano a cercare altrove: non solo conforto, ma direzione. Cercano sguardi che li vedano, orecchie che li ascoltino, voci che dicano “ci sei”, prima ancora di “ce la farai”. Cercano adulti che non siano solo “grandi”, ma presenti.

Bisogna prendersi le proprie responsabilità: gli adulti hanno smesso, in molti casi, di essere punti di riferimento. Preferiscono restare nel proprio salotto o dietro uno schermo, proprio quello smartphone di cui spesso si critica l’uso improprio da parte dei giovani.

E forse dovremmo domandarci perché lo usano così. Forse perché anche gli adulti sono, in fondo, altrettanto impreparati. Intanto si pontifica su cosa sia giusto o sbagliato, si parla di “comunità educante” senza capire davvero da dove bisogna partire.

Crescere nel frastuono del mondo

Ecco, don Italo lo sapeva bene. E lo trasmetteva con tutto sé stesso. Lui era un pezzetto di quella comunità educante che oggi, faticosamente e in modo ancora troppo sporadico, stiamo cercando di costruire.

L’altro giorno (altro flash mentale) riflettevo sulla parola “talento”. Avendo fatto sport, l’ho sentita spesso. Ultimamente la sento sempre meno. Mancano figure ponte, adulti-guida, presenze che sappiano riconoscere il talento e accompagnarlo. Così i giovani crescono nel rumore del mondo, ma con una grande assenza: quella di qualcuno che dica loro che valgono, che hanno un dono, che possono provarci, anche sbagliando.

La mancanza di figure di riferimento non è solo un vuoto emotivo: è un rischio educativo, sociale, persino politico. E lo stiamo vedendo chiaramente: questo vuoto alimenta rabbia sociale, estremismi, senso di disorientamento. È lì che si insinuano modelli distorti: influencer che esibiscono successo senza sforzo, narrazioni tossiche di potere, mascolinità deviate, femminilità stereotipate. Oppure, peggio ancora, realtà devianti che promettono appartenenza in cambio di obbedienza.

Non servono supereroi

Il bisogno di essere visti è universale: e se non trova spazi buoni, si adatta anche a quelli pericolosi.

Non servono supereroi. Servono adulti che ci siano. Chi ha un ruolo, occupi le piazze. Presìdi presenti non nei luoghi, ma nelle persone. Bisogna fare spazio. Creare spazio. Coltivare presenze.

Perché educare è un atto di comunità.

E forse è giunto il momento di non dire solo ai giovani di non delegare. È il momento di estendere quel messaggio di don Italo anche — e soprattutto — agli adulti.

Adulti che, troppo a lungo, hanno delegato.

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