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Enea e quelle mamme sole

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E’ finito molto presto il clamore mediatico attorno alla vicenda di Enea: la bulimia comunicativa ha bisogno quotidianamente di nuove storie, prima di passare oltre. Così diventa facile per i responsabili della cosa pubblica cavarsela con una dichiarazione di circostanza o un tweet anche davanti a drammi sociali come quelli delle madri sole, che invece richiedono risposte concrete, come pure in qualche Regione si cerca di fare

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La storia di Enea, il bambino lasciato dalla mamma nella Culla per la vita dell’Ospedale Mangiagalli di Milano, ha riportato la mia memoria indietro nel tempo, a quarant’anni fa.

Sull’ascensore che portava al reparto maternità degli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria salimmo in quattro: una giovane che doveva partorire (che chiamerò Angela, nome di fantasia), suor Antonietta Castellini che l’accompagnava, un infermiere ed io.

Succedeva spesso che venivo chiamato di notte dalla Casa Accoglienza per ragazze madri che don Italo Calabrò decise di aprire subito dopo l’emanazione della legge 194 per dare risposte a quelle donne che, pur vivendo una situazione difficile, decidevano nonostante tutto di dire sì alla vita.

Anche quella notte c’era la necessità di accompagnare un’ospite in Ospedale per partorire. Angela durante il breve tragitto in ascensore scoppiò a piangere; la scena diventò tragica (e anche un po’ comica) quando l’infermiere, perplesso, non avendo inquadrato la situazione, rivolgendosi alla donna disse: “Signora perché piangete?” e, riferendosi a me: “Guardate vostro marito quanto è tranquillo!”. A quelle parole il pianto di Angela diventò irrefrenabile, perché si acuì in lei l’angoscia di chi stava mettendo al mondo un bambino sapendo che non avrebbe avuto un padre e con un futuro molto incerto.                                                                                                                

In oltre quaranta anni molte altre donne sono state accolte e supportate a Casa Accoglienza (oggi intitolata proprio a Suor Antonietta Castellini). La maggior parte di loro ha deciso di assumersi direttamente la responsabilità genitoriale, e solo una minoranza (composta soprattutto da ragazze minorenni) di dare il/la bambino/a in adozione.

La ruota degli esposti allo spedale degli Innocenti a Firenze

Il segnale di un malessere che permane

Sono passati tanti anni e molti sono stati i cambiamenti culturali e delle politiche di welfare anche in questo campo. La facoltà riconosciuta alle madri di non riconoscere il figlio già in ospedale (Parto in anonimato) ha fatto venire meno situazioni di abbandono di bambini nelle cosiddette Ruote degli Esposti, o davanti agli uffici delle Questure o nelle Chiese.

Oggi, come abbiamo visto con Enea, anche il ripensamento subito dopo il parto può essere gestito con modalità che salvaguardano la salute del bambino.

La storia di Enea è però il segnale di un malessere che permane, l’iceberg di un sommerso che non si vuole leggere e analizzare nella sua complessità: poteva essere una scossa e non un problema da rimuovere al più presto, come di fatto è avvenuto dopo i pochi giorni di esposizione mediatica della vicenda.

Il segnale dai più non è stato colto. Si è preferito semplificare , raccontare questa storia come un  dramma privato, isolato,  a cui rispondere con la beneficenza  dei buoni che offrono alla donna aiuto e protezione senza chiedersi quali sono i doveri dello Stato.

Le istituzioni non sanno nemmeno quante siano e come stanno vivendo tutte quelle donne che sono chiamate a dover decidere di scegliere di essere genitore del bambino che si è portato in grembo per nove mesi senza avere un compagno accanto o che lo hanno perso per vari motivi (separazioni, divorzi, violenza, ecc.).

Un esercito di donne sole in difficoltà

Le donne che in Italia vivono questa condizione sono tantissime, con di fronte un sistema di Welfare che, soprattutto nelle zone più povere, non offre opportunità di servizi sia al momento della nascita, sia nella fase cruciale delle opportunità di lavoro, di alloggio, di autonomia. 

Sono un vero e proprio esercito invisibile e in aumento le madri sole: un milione e trecentomila in Italia, circa trentamila in Calabria.

Solo qualche Regione (Lazio ed Emilia Romagna), ha pensato ad una legislazione a loro sostegno; di fatto, in particolare al Sud, le uniche risposte che queste donne ricevono vengono dalla Chiesa e dal volontariato attraverso la rete delle Comunità di accoglienza e dei Centri di ascolto che si fanno carico delle prime necessità ma non possono, ovviamente, perché non ne hanno i mezzi, garantire loro percorsi di autonomia.

Mancano politiche e servizi di tutela delle maternità difficili sia nei primi anni di vita (asili nido, consultori, scuole a tempo pieno), sia  quelli di sostegno al reddito, diritto all’abitazione, alla formazione professionale ed al lavoro stabile.

Sono una minoranza le donne che non desiderano avere figli

Questi diritti non sono nell’agenda politica, nel mentre si versano lacrime di coccodrillo sulla denatalità e si promettono fumose azioni di Welfare che dovrebbero incrementare le nascite. Continuando ad ignorare quanto emerge dai sondaggi, come quello recente di Sky News 24, che ci dice che solo il 13% delle donne non prevede di avere figli, mentre la stragrande maggioranza farebbe questa scelta se avesse certezze economiche, servizi adeguati di sostegno e un lavoro stabile. 

Che fare allora?

La priorità è dotare la Calabria di una legge che permetta di monitorare questo mondo di disagio sommerso, favorire la messa in rete di quanto esiste ( anche se poco ), incoraggiare protocolli di intesa tra enti Locali, ASP, Terzo settore per attivare attraverso finanziamenti mirati azioni di supporto e di accompagnamento delle donne fin dai primi anni di vita dei bambini. Prevedere in particolare agenzie che favoriscano il diritto alla casa, alla formazione professionale, all’inserimento lavorativo.

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