L’intervento del vicario generale della diocesi di Reggio Calabria nonché fondatore del Centro Comunitario Agape dopo il rapimento del piccolo Vicenzo Diano
Se preferisci, ascolta l’audioarticolo
L’articolo che segue è pubblicato per gentile concessione del Corriere della Sera-Buone Notizie (https://www.corriere.it/buone-notizie/)
Il due agosto 1984, a Lazzaro, un paesino di mare a pochi chilometri da Reggio Calabria, Vincenzo Diano, un bambino di undici anni figlio di un noto imprenditore della zona, venne sequestrato dalla ‘ndrangheta.
Non fu il primo e non sarà l’ultimo sequestro di bambini nell’arco del trentennio che caratterizzò questa spregevole forma di autofinanziamento della malavita calabrese.
I sequestri di donne e bambini determinarono una sorta di mutazione genetica della ‘ndrangheta, perché questa organizzazione aveva una sorta di codice d’onore in base al quale bambini, donne ed anziani erano intoccabili.
Lo sgomento per il sequestro di un bambino fu tale da richiedere una sollevazione delle coscienze, una rivolta morale che, per concretizzarsi – come la storia ci insegna- aveva bisogno di qualcuno che si mettesse alla testa di un popolo, scuotendolo dal torpore, dalla rassegnazione, dalla paura.
Fu don Italo Calabrò, vicario generale della diocesi di Reggio Calabria nonché fondatore del Centro Comunitario Agape, associazione impegnata contro le mafie e le ingiustizie sociali, a farsi promotore di un gesto clamoroso per quei tempi: chiese al parroco di Lazzaro la sospensione della Festa patronale (in corso in quei giorni) in segno di condanna di quel gesto sacrilego, sostituendoli con una celebrazione eucaristica in piazza.
E durante quella celebrazione, l’omelia di don Italo divenne una sorta di manifesto religioso contro la mafia. In un’epoca in cui nei contesti pubblici sia civili che religiosi ci si guardava bene anche solo dal pronunciare la parola ‘ndrangheta, la voce di Don Italo, diffusa in tutto il paese dagli altoparlanti, scandì parole dure e senza ambiguità.
«Siamo qui– disse con voce che trasudava dolore ed indignazione – per isolare i mafiosi. E io spero che questa mobilitazione di coscienze in chiave religiosa così pubblica e partecipata sia di insegnamento per tutte le comunità cristiane. Perché a gesti disumani come quelli di un rapimento-e soprattutto del rapimento di un bambino- si risponda con una mobilitazione di coscienze cristiane e civili».
E ancora: «Conosco la deformazione che in seno alla mafia è stata data alla parola uomo, i mafiosi si ritengono uomini e addirittura – la parodia diventa sacrilega – uomini d’onore. Se c’è qualcuno che non è uomo è invece il mafioso. E se ce qualcuno che non ha onore è il mafioso. I mafiosi non sono uomini. I mafiosi non hanno onore e non li possiamo paragonare nemmeno alle bestie, perché le bestie hanno almeno un istinto paterno e materno».
Parole durissime, mitigate solo alla fine dall’invito rivolto ai mafiosi si ritrovare un barlume dell’umanità perduta convertendosi ed abbandonando la via del male.
La prigionia di Vincenzino Diano durò settantadue giorni, e si concluse dopo il pagamento di un riscatto. Per la sua liberazione non fu utile neppure l’appello fatto da Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in Calabria.
Clicca sulla foto e ascolta l’audio originale dell’omelia di don Italo
L’omelia di don Italo rappresentò uno spartiacque per una Chiesa come quella calabrese ancora titubante ad esprimere una presa di distanza netta sul fenomeno mafioso. Egli rischiò seriamente per la sua vita, ma scelse in quella occasione e in tutta la Sua missione pastorale di non tacere, fu vicino alle vittime durante la guerra di mafia che in quegli anni insanguinò il reggino per confortare e per mobilitare le coscienze. Sempre usando un linguaggio di verità, come quando diversi sacerdoti diventarono bersaglio della ‘ndrangheta, ai quali amava dire «nel coraggio dei suoi pastori il popolo trova il suo coraggio». Non è un caso, quindi, che don Luigi Ciotti lo ritenga uno dei più grandi conoscitori della ‘ndrangheta.
Don Italo Calabrò fu un prete che con la forza della sua testimonianza e l’approccio visionario al servizio degli ultimi, seppe coinvolgere tanti giovani nella realizzazione di servizi innovativi per i più deboli e poveri (dalle case per dimessi dall’Ospedale Psichiatrico all’accoglienza per le ragazze-madri), nel servizio civile alternativo al militare e nella lotta contro la corruzione politica.
Una storia che la Chiesa reggina sta studiando con l’avvio della causa di beatificazione, un itinerario che parte da lontano e che merita di essere raccontato per comprendere quella sera di agosto del 1984 e le tante altre pagine che segnano la vita di questo straordinario prete del Sud che ha saputo dare voce e corpo alla storia di tanti costruttori di futuro.
* L’autore è Presidente Centro Comunitario Agape di Reggio Calabria