Ad ogni episodio di violenza che vede coinvolti giovani o giovanissimi esplode- via social, ma non solo – l’immancabile corollario di dichiarazioni da parte di politici, esperti di varia natura, ministri ed umanità varia. Quando poi i fatti accadono a scuola, come recentemente avvenuto nel prestigioso Liceo Scientifico Vinci di Reggio Calabria, lo psicodramma collettivo si traduce nella denuncia dell’esistenza di una vera e propria emergenza, senza arrivare ad interrogarsi realmente sulle radici profonde del malessere che riguarda non solo i giovani, ma anche gli adulti di riferimento
Se preferisci, ascolta l’audioarticolo
Ancora una volta siamo qui, ad interrogarci sulle famiglie – genitori e figli – e sull’educazione. Interrogarci per offrire alcuni spunti di riflessione, sul piano psicologico, incalzati dalle cronache quasi quotidiane che vedono protagonisti genitori e figli. Figli che non sono i nostri, in senso stretto, ma potrebbero esserlo. Ormai è chiaro: nessuno può ritenersi al riparo da certe vicende.
Vicende, talvolta tragiche, presentate dai media nella loro drammaticità e con toni allarmistici, tali da far gridare da troppo tempo all’“emergenza educativa”. Fatti a cui seguono solenni dichiarazioni e impegni istituzionali, di rado onorati.
Chi ricorda ancora la vicenda di una giovane a cui un coetaneo, che le dichiarava amore, ha tolto la vita? Chi ricorda la forte ondata emotiva che la tragedia ha suscitato a livello nazionale, che ci ha lasciati per diversi giorni con il fiato sospeso e infine sgomenti? Nel mentre, altre cronache ci hanno incalzato e ciò che è stato si stempera, si sedimenta e stratifica in noi: genitori/educatori vinti dall’assuefazione.
Emergenza educativa o disimpegno educativo?
Ogni vicenda portata alla ribalta dai media, spenti i riflettori, lascia l’eco della cosiddetta “emergenza educativa”. Emergenza, riporta il vocabolario, è una parola che deve essere utilizzata per eventi eccezionali nella loro gravità, che richiedono interventi sì eccezionali ma temporanei.
Noi, invece, in ambito educativo non siamo in presenza di situazioni acute ma di un fenomeno che sta diventando diffuso e rischia di cronicizzarsi, se non si interviene per tempo ed efficacemente.
Utilizzare ancora l’espressione “emergenza educativa” risulta fuorviante e può portare a conseguenze controproducenti. Considerare l’educazione un fatto emergenziale può far credere che il “compito educativo” sia soverchiante le capacità, le forze degli educatori.
Così, la concezione emergenziale riferita all’educazione può indurre i genitori alla delega, verso altre agenzie educative, come si sarebbe detto una volta, o al lassismo. Praticare la delega educativa, soprattutto nei confronti degli insegnanti, può portare alla pretenziosità riguardo un compito che, invece, è principalmente genitoriale.
L’emergenza educativa non esiste. Siamo in presenza, invece, di un progressivo disimpegno educativo, una deresponsabilizzazione propria della funzione genitoriale ed educativa. L’impegno educativo comporta gratificazioni, gioie, soddisfazioni ma anche fatica, rischio, sacrificio per cui è più comodo disimpegnarsi, deresponsabilizzarsi.
È facile passare il confine
I nostri figli, i giovani, sono tutti come ci vengono presentati dalle cronache? No, certamente no.
È indubbio, però, che assistiamo da tempo ad un crescente disagio dei genitori e dei figli, rilevato e confermato da numerosi studi e autorevoli ricerche, preesistente la pandemia di Covid-19. La pandemia ha reso evidente e accentuato il disagio già latente, non l’ha causato.
Il disimpegno educativo da parte dei genitori/educatori, il rinunciare ad essere punto di riferimento autorevole e credibile o il non esserlo affatto, ha reso più labile, superabile il confine esistente fra benessere e malessere, lo stare bene con se stessi/gli altri e il disagio, difficoltà e problema, disturbo e patologia.
I confini sono facilmente attraversabili se nessuno li presidia. E molti, fra noi genitori/educatori, abbiamo abbandonato la postazione.
Dietro un figlio che sta male…
Non c’è alcun giudizio o accusa. Siamo qui per cercare possibili cause su cui intervenire. È un dato di fatto: l’evidenza clinica dimostra che dietro un figlio che sta male, spesso, c’è un genitore che sta peggio, che non si è ancora sufficientemente risolto, confuso circa il proprio ruolo, funzione, valore.
Sono genitori che hanno necessità di essere aiutati, accompagnati in un percorso di crescita, di consapevolezza perché, lo sappiamo, nessuno nasce genitore ma lo si diventa.
Una volta, per assolvere in modo accettabile il compito genitoriale, poteva bastare l’aver osservato i propri genitori e riproporre tutto il buono e il positivo che avevano espresso nei nostri confronti. Oggi sembra non essere più così. Da qualche parte, in qualche modo ci siamo persi.
Come ci siamo persi?
Cos’è accaduto per cui i modelli educativi di una volta, non sono o sembrano non essere più validi? Ci siamo persi, ma non per una sola causa. Il disagio dei figli e dei genitori ha cause multifattoriali. Fra i diversi fattori ne possiamo considerare uno: il cambiamento.
Cos’è cambiato? È cambiato tanto, se non tutto, e il cambiamento impetuoso prosegue.
Abbiamo costruito delle macchine, la cosiddetta “intelligenza artificiale”, che stanno evolvendo verso nuovi territori che neanche coloro che le hanno pensate e realizzate sono in grado di immaginare. Se ci pensiamo bene, nel giro di poche generazioni anagrafiche, pari a circa 25 anni, dai nostri nonni ai nostri figli si è passati da un’epoca definita della “civiltà contadina” alla società postindustriale.
Dalla famiglia patriarcale che, nel bene e nel male, ha individuato una figura, il patriarca, quale punto di riferimento per le diverse successive generazioni, si è passati alla famiglia nucleare, via via sempre più ridotta nel numero di componenti e più frammentata, isolata rispetto le altre famiglie che subivano lo stesso fenomeno. Più recenti sono le configurazioni delle famiglie monoparentali e ricomposte. Nuove istanze sociali spingono verso il riconoscimento delle famiglie omoparentali.
Se pensiamo alle famiglie e alle distanze interpersonali che interponiamo nell’incontro con gli altri, possiamo cogliere quella che ritengo essere una “involuzione relazionale”. Anche i modelli di produzione e di consumo sono cambiati notevolmente. Siamo passati da modelli fondati sull’autosufficienza alla globalizzazione e iperconsumo.
In altre epoche, si moriva nella medesima condizione sociale in cui si era nati: contadini, artigiani, commercianti o nobili. Nell’epoca attuale, nella vita di una persona il cambiamento regna sovrano, anche nella condizione sociale. Il cambiamento ci pone difronte alla novità, a ciò che è sconosciuto.
E l’ignoto genera paura, da cui deriva l’ansia che, se non gestita efficacemente, scaturisce in angoscia. Le paure, all’opposto, per farle svanire devono essere affrontate, sfidate.
Tanti genitori, invece, non sapendo come affrontare preferiscono abbandonare il campo, prendere la via di fuga della deresponsabilizzazione, della delega o diventare ipercontrollanti, iperprotettivi verso i figli, soffocandoli nel processo di crescita, rendendoli insicuri, fragili.
Tempi ristretti
Un ulteriore fattore che ha provocato disorientamento, fra genitori e figli, tale da sfociare in disagio, è il ritmo del cambiamento. I cambiamenti in passato erano lenti, graduali, procedevano a passo d’uomo. Con l’avvento della moderna tecnologia, il cambiamento ha assunto un andamento esponenziale.
Non si ha il tempo di considerare, riflettere, “metabolizzare” (cogliere il senso e significato profondi di una certa situazione) su una qualche novità che già ne incalza un’altra e un’altra ancora. Alla fine, è facile rinunciare al voler comprendere e ci si lascia andare.
Non siamo più in grado di gestire il cambiamento ma siamo gestiti da ciò che cambia: è uno dei paradossi in cui ci dibattiamo.
Gli astrofisici ci dicono che il tempo si contrae quando ci si approssima ad un buco nero che attrae in modo irresistibile e “inghiotte” tutto. I nostri tempi, i nostri ritmi di vita oggi sono contratti, molto ristretti, come se stessimo per cadere dentro un buco nero da cui, sempre gli astrofisici affermano, non si esce.
Parole chiave: consapevolezza e azione
Siamo senza speranza? No, abbiamo speranza certo… se la costruiamo.
Come genitori o educatori siamo chiamati a costruire, a continuare nella costruzione della speranza educativa. La rassegnazione distrugge la speranza. Il primo passo per costruire la speranza consiste nell’essere consapevoli. Come essere consapevoli?
Si diventa consapevoli attraverso l’osservazione, l’ascolto, la curiosità (tipica caratteristica delle persone intelligenti). Il genitore che vuole assolvere il compito educativo, presidiare il confine labile che separa nel proprio figlio la funzionalità comportamentale/emotiva/relazionale/psichica dalla disfunzionalità, deve porsi delle domande e cercare, trovare le risposte.
Ecco alcune domande da farsi per capire il figlio.
“Cosa significa questo comportamento che mio figlio prima non manifestava?”
“Cosa mi vuol dire con la sua chiusura, il suo silenzio?”
“Perché mi ha risposto in questo modo?”
“Cosa lo turba?”
“Cosa dovrei sapere che mi sfugge?”
“Chi può aiutarmi a capire?”
“Chissà come si comporta, si esprime a scuola?
“Chissà cosa hanno notato i suoi insegnanti? Il suo allenatore? La sua istruttrice? L’educatore responsabile del suo gruppo?”
“Qual è il suo bene?”
Poi ci sono le domande che un genitore deve rivolgere a se stesso.
Eccone alcune.
“Come mai non mi sono accorto che mio figlio…?”
“Come posso assumere un altro punto di vista che mi possa spiegare ciò che non capisco riguardo mio figlio?”
“E tu cosa hai notato? Cosa pensi che sia, che voglia dire? Cosa pensi dobbiamo fare?” rivolto all’altro genitore.
“Cosa provo, cosa sento quando mio figlio…?”
“Cerco di nascondere quanto ho scoperto per la vergogna, per paura di essere giudicato un genitore incapace?”
“Cosa devo cambiare in me, nel mio modo di essere e di fare, per essere di aiuto a mio figlio?”
Le domande da sole non bastano
Possiamo capire razionalmente, ma a cosa giova se non si è conseguenti a ciò che si è compreso? Se si è compreso ma si lasciano inalterati i comportamenti, gli atteggiamenti, gli schemi relazionali a che serve?
Il cambiamento passa attraverso l’ascolto attivo, l’assenza di giudizio, la dilatazione degli spazi e dei tempi da dedicare alla relazione, per farla evolvere.
Il cambiamento passa attraverso il dialogo costruttivo con il figlio e con tutte le altre figure che, come i genitori, sono chiamati a contribuire alla sua educazione.
____________
*L’autore, Gianni Trudu, è Psicologo clinico