Suicidi e carceri. Ancora un suicidio nelle carceri italiane. I più fragili e disperati non reggono all’interno di un sistema che non riesce a coniugare umanità e rieducazione, come pure richiede la Costituzione
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Corriere della Sera e Avvenire hanno scelto di mettere in prima pagina la lettera che Vincenzo Semeraro, giudice di sorveglianza del Tribunale di Verona, ha inviato alla famiglia di Donatella, morta suicida in carcere. “Ogni volta che una persona detenuta in carcere si toglie la vita, significa che tutto il sistema ha fallito. Nel caso di Donatella, io che la seguivo ero parte del sistema. Quindi, come il sistema, anche io ho fallito”.
Una testimonianza umanamente toccante quella del magistrato, unito in un abbraccio lacerante e bagnato dalle lacrime con il papà di Donatella, che non si da pace da giorni chiedendosi “Dove ho sbagliato? Forse avrei potuto fare di più…”
Donatella era una ragazza fragile, la vita segnata dalla tossicodipendenza, entrava ed usciva dal carcere per piccoli furti legati alla droga. Dice ancora Semeraro:” Aveva bisogno di un adeguato sostegno psicologico, un servizio di supporto che l’intero sistema non riesce a garantire. Purtroppo, la sua fragilità ha preso il sopravvento nella solitudine di quella cella”.
Con Donatella, dall’inizio dell’anno sono ormai quarantasette le vittime di suicidio nelle carceri italiane. Dovremmo perciò concludere che almeno per quarantasette volte, per dirla con il giudice Semeraro, il sistema carcerario ha fallito?
Purtroppo no, perché il punto vero è che il sistema carcerario in Italia è sistematicamente e da sempre votato al fallimento, perché non è messo in grado di assolvere alla missione ad esso assegnata dall’art. 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”
Quando entrano in carcere, i detenuti sono spogliati e sottoposti dal personale sanitario ad ispezioni corporee (per accertare le loro condizioni di salute, ma anche per ragioni di sicurezza), privati dei loro effetti personali, poi mandati in celle di isolamento o di transito, a seconda dei casi, in attesa di incontrare il magistrato, ovvero effettuare il colloquio di primo ingresso con l’educatore ed essere destinati in una cella dentro le sezioni. Il denudamento iniziale è il paradigma di tutta l’esperienza carceraria: il carcere ti spoglia di tutto, non solo della tua libertà, ma anche, viste le condizioni in cui versano le carceri italiane, della tua stessa dignità, dell’intimità, dei tuoi sogni, dei tuoi desideri e quasi sempre ti ruba la speranza di poter, un giorno, tornare ad essere un cittadino normale, con un suo lavoro, i suoi affetti, la sua vita. Poi finisce con il consegnarti alla legge interna – quella imposta dai boss o dai gruppi etnici più forti- fatta di regole alle quali non ti puoi sottrarre, anche quando subisci violenze e angherie, per non passare guai peggiori.
Tutto ciò accade perché, malgrado la Costituzione (sempre lì dobbiamo tornare) il sistema-paese ha preferito finora usare il carcere come discarica sociale, invece di puntare al recupero di chi ha commesso errori.
Ora, con i decreti attuativi della riforma Cartabia dovrebbero finalmente essere introdotte una serie di misure alternative alle pene detentive fino a quattro anni, ma rimarrà sempre un punto interrogativo sulla sorte dei carcerati in attesa di giudizio.
In Italia c’è un ricorso abnorme alla carcerazione preventiva: al 31 dicembre scorso i detenuti condannati in via definitiva non superavano il 70% del totale, mentre quelli in attesa di giudizio erano più del 15 % del totale. E’ bene tenere presente che i detenuti in attesa di giudizio solo su base volontaria sono ammessi, a loro richiesta, a partecipare ad attività educative, culturali e ricreative.
Naturalmente non mancano, come in ogni settore, esperienze straordinarie di recupero e di promozione della persona, ma sono isole dorate, percorsi virtuosi dai quali la maggior parte dei detenuti è esclusa.
Le statistiche ed i numeri, peraltro, parlano chiaro.
Secondo i dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 31 luglio, il sovraffollamento delle carceri è superiore di circa il 10% della capienza massima prevista: infatti, a fronte di una capienza massima di 50.909 posti, i detenuti presenti sono 54.979 (di cui 2.307 donne e ben 17.246 stranieri). Il 10% di sovraffollamento è però un dato medio, il che significa che ci sono carceri dove è molto più alto, con tutte le conseguenze del caso in tempi di afa insopportabile e di covid.
I detenuti che lavorano sono appena il 35% (19.235, di cui solo 2.305 per datori di lavoro esterni). Il rapporto educatori/detenuti è di 1 a 65, mentre quello agenti/detenuti è di 1 agente ogni 1,63 detenuti.
Molte altre informazioni, dalle criticità strutturali sia delle celle che degli ambienti comuni alle carenze di lavoro e di percorsi di istruzione e formazione, si ricavano dall’Osservatorio sulle Carceri curato dall’Associazione Antigone, che fa riferimento sia ai dati del Ministero che a quelli rilevati ed elaborati dalla stessa associazione a seguito della visita di un campione casuale ma significativo di Istituti penitenziari.
Sono numeri che dicono tutto, e raccontano perché le carceri continuino ad essere un luogo di disperazione ed una scuola di malavita, malgrado alcune isole felici che pure ci sono, e malgrado lo stesso Ordinamento penitenziario specifichi che ” Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, della formazione professionale, del lavoro, della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”
Investire nell’edilizia carceraria per creare condizioni dignitose di vita, con celle per una/due persone, dove ci sia sufficiente confort e privacy; assicurare la formazione permanente del personale penitenziario; rafforzare ruolo ,funzione e numero del personale civile dedicato alle attività di osservazione e trattamento; potenziare il supporto psicologico e motivazionale per i detenuti in attesa di giudizio ed i soggetti più fragili; ampliare in maniera decisiva il numero di mediatori linguistico-culturali; potenziare i percorsi scolastici e formativi, rendendoli obbligatori per tutti coloro che non svolgono un’attività lavorativa; rafforzare le agevolazioni alle imprese per favorire l’impiego dei detenuti; impegnare comunque tutti i detenuti definitivi che non svolgono lavoro professionale e non studiano in attività di lavoro socialmente utile in collegamento con le comunità locali: questo è l’unico modo per far sì che il carcere si trasformi da luogo di segregazione, utile solo a difendere la società esterna da soggetti devianti e pericolosi, a luogo di recupero di una umanità nei cui confronti la Costituzione ci richiama al dovere di “tendere alla rieducazione”.
Ho sempre pensato che la gestione di carceri, malattia mentale e disabilità gravi sia una cartina di tornasole della civiltà di un paese, e forse è per questo che ogni volta che sento Renzo Piano parlare della necessità di “rammendare le periferie” mi viene da pensare che dobbiamo rammendare non solo le periferie territoriali, ma anche le “periferie umane e sociali”, come quella rappresentata dalle carceri.
Scommettiamo che, per paura di perdere voti, questo tema non sarà nemmeno sfiorato in campagna elettorale, neanche dai paladini della solidarietà?
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