Le differenze nella qualità della vita tra il Nord ed il Sud del Paese non riguardano solo la sanità. Il progetto di Autonomia differenziata di cui si discute in queste settimane, se realizzato, darebbe un colpo mortale ad ogni speranza di superare le scandalose disuguaglianze oggi esistenti
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Partiamo da una considerazione: la Calabria ha un reddito medio di circa 15 mila euro l’anno che coincide con la soglia di povertà. Infatti, la struttura familiare nel Sud Italia è basata sul modello tradizionale monoreddito del capofamiglia. Con risorse esigue, quindi, spesso si deve pagare un mutuo o un affitto, oltre a soddisfare gli altri bisogni primari. Si deve rinunciare alle vacanze, che pure sono un diritto e non un lusso, per non ritrovarsi a settembre senza i soldi per pagare i libri per i figli, e ad altri bisogni, certamente non frivoli o futili, quali lo sport, la cultura e il buon cibo, che contribuiscono a determinare autentico benessere e, soprattutto per i nostri figli, una crescita armonica e con le giuste opportunità.
Siamo un foltissimo popolo, noi del Sud, sospinto al margine, che vive al confine con la povertà e che rischia di sprofondare nella miseria quando si pone un improvviso ed imprevisto problema di salute che non trova risposte adeguate in un sistema pubblico in perenne affanno e che non riesce più ad assolvere al ruolo per il quale è stato concepito, eliminare, o quanto meno mitigare, le crescenti disuguaglianze di salute. Questa situazione, di fatto, configura un Paese sostanzialmente già diviso, ancor prima della realizzazione di un sistema di autonomia differenziata che ne sancirebbe la legittimazione in spregio ai dettati costituzionali.
La salute negata
I meccanismi con i quali si nega l’accesso al sistema pubblico di cure sono molteplici. Il più comune è quello delle liste d’attesa. Ad esempio, chi ha un problema addominale e deve fare un’ecografia, piuttosto che una visita gastrologica, e si rivolge al pubblico, riceve risposte che comportano attese anche di diversi mesi costringendo i più a rivolgersi al mercato. E’ pur vero che in alcuni casi non si tratta di problemi urgenti, ma bisogna comprendere lo stato d’animo di chi entra nell’angoscia della malattia grave, tanto più in questa epoca dominata dalle incertezze, per capire come sia necessario garantire risposte immediate e rassicuranti anche sul versante della salvaguardia del benessere psichico. L’elenco delle inefficienze è lungo e comprende l’assistenza ai disturbi psichici e alle disabilità, gli screening per la prevenzione delle malattie neoplastiche, l’assistenza agli anziani, ecc. Inefficienze che alimentano le disuguaglianze, a loro volta ulteriormente dilatate dall’assenza di altri meccanismi di protezione sociale.
Di chi sono le responsabilità?
Le responsabilità di queste inefficienze su chi ricadono? Sicuramente su noi Calabresi per l’indifferenza che esprimiamo nei confronti della gestione e cura della cosa pubblica, compresa quella sanitaria, e per il modo con cui scegliamo le nostre classi dirigenti abdicando a criteri clientelari, rinunciando, quindi, all’affermazione dell’interesse pubblico su quello individuale e privato.
Tuttavia, dopo 12 anni di commissariamento della sanità calabrese non è certamente da considerarsi auto-assolutiva la chiamata ad una pari responsabilità delle Istituzioni centrali dello Stato. La Regione Calabria ha conosciuto Commissari, imposti dall’alto, che non sapevano cosa firmavano, che cadevano dalle nuvole e che, in ogni caso, in un lungo periodo di tempo (12 anni!!!) non hanno prodotto alcun risultato utile. Nonostante ciò, esibendo con leggerezza comportamenti non rispettosi della dignità e del bisogno di giustizia, continua a perdurare l’offesa di una rappresentazione che individua nei Calabresi gli unici responsabili dei loro mali.
Tra paternalismo e neocolonialismo
Il riconoscimento delle responsabilità spesso non è previsto nella prassi della politica e dell’amministrazione pubblica, ma ci saremmo aspettati, a fronte dell’inefficacia degli interventi sino ad oggi imposti, almeno una profonda revisione di comportamenti francamente paternalistici che sino ad oggi hanno escluso dalla progettualità e dalle decisioni quelle risorse locali che pur dimostrano di avere idee, capacità progettuale innovativa, competenza ed esperienza per realizzarle.
Il coinvolgimento di questo capitale sociale sarebbe stato il più grande servizio che un commissariamento avrebbe potuto produrre, in questi anni, per escludere finalmente gli incompetenti e gli indifferenti, o francamente nemici, all’interesse pubblico e far emergere il buono e il meglio che la comunità calabrese saprebbe esprimere. Al contrario tutto si è svolto all’insegna della più assoluta conservazione degli stessi equilibri responsabili delle arretratezze attuali!
A fronte dei fallimenti registrati in più di un decennio si impone una profonda revisione del paradigma neo-coloniale sino ad oggi proposto. La Calabria sicuramente non può recuperare da sola i drammatici ritardi che l’affliggono ma ha bisogno di segni concreti e importanti di solidarietà e non di un soccorso affidato a un buro-taumaturgo, solo al comando, che pretende di “non parlare ai Calabresi”.
Il rapporto Svimez è l’ennesima certificazione delle disuguaglianze territoriali e sociali
Possiamo uscire fuori da questa drammatica situazione, Calabresi, Sud e resto del Paese, a condizione che si riannodi un dialogo leale e attento, ma questo impegno è minacciato, in atto, da un interesse politico sbilanciato sul consolidamento delle disuguaglianze già esistenti tra i diversi territori del Paese, piuttosto, che su politiche di autentica solidarietà che non possono prescindere dall’equità del sistema di ridistribuzione delle risorse pubbliche.
Secondo il recente rapporto Svimez, il Sud risulta significativamente penalizzato, nel trasferimento di risorse, oltre che in campo sanitario, anche per quel che riguarda l’istruzione (con pochissime scuole che possono garantire il tempo pieno, le palestre o la mensa), le politiche sociali, le infrastrutture, i trasporti. Se è vero, come ci hanno spiegato molti epidemiologi, che il salto di qualità nella salute l’abbiamo ottenuto assicurando il lavoro in contesti salubri, con l’istruzione, con le politiche di sicurezza sociale e, ancora, migliorando la nostra alimentazione e le condizioni dell’igiene nelle città e nelle abitazioni allora si capisce come questo sistema di distribuzione delle risorse del Paese risulta esso stesso all’origine delle peggiori patologie che ci affliggono.
L’Autonomia differenziata è inaccettabile
Il Paese è già, quindi, profondamente diviso e l’Autonomia differenziata aggraverebbe ulteriormente questo divario in spregio ai principi su cui si fonda la nostra Carta Costituzionale. Si obietta che questi timori sono del tutto infondati ma abbiamo già una prova convincente degli effetti patogeni di queste logiche autonomiste. A partire dal 2000, in nome del federalismo, il Sistema Sanitario Nazionale è stato smembrato in 20 diversi sistemi regionali ognuno con diverse disponibilità di risorse. E’ proprio a partire da questi anni che stiamo registrando un progressivo divario dell’aspettativa di vita a svantaggio dei cittadini del Sud, con punte che raggiungono anche i tre anni di differenza. Anche le possibilità di arrivare in buona salute all’età più avanzata vede significativamente arretrate le popolazioni del Mezzogiorno. In sintesi, al Sud si vive meno e, comunque, peggio come effetto di logiche sostenute esclusivamente da insaziabili interessi localistici.
Alla luce di questi effetti autonomistici possiamo accettare di considerare l’attuale dibattito politico adeguato agli interessi di una parte consistente, forse maggioritaria, del Paese? In tutta sincerità l’autonomia è del tutto inaccettabile anche quando venisse garantita la revisione dei livelli essenziali di prestazioni (LEP) perché anche questi non ci metterebbero al riparo dal rischio di mantenere le attuali disuguaglianze. In sanità, ad esempio, a fronte di un valore soglia di LEA di 160 punti, ritenuto sufficiente, ci potrebbero essere regioni povere che si fermerebbero a questo limite e regione più ricche che potrebbero arrivare a valori notevolmente superiori garantendo ai loro cittadini un numero enormemente superiore di prestazioni. Cittadini di uno stesso Paese ma con opportunità e diritti profondamente diversi garantiti per legge! A fronte di queste prospettive, anche con la garanzia di una revisione in senso più egualitario degli attuali livelli di prestazioni, la risposta al progetto di Autonomia differenziata non può che essere una sola, la più assoluta intransigenza in nome di un Paese unico e di cittadini uguali da Lampedusa al Brennero!
Non siamo dei disperati, ma gente capace di sperimentare modelli di rigenerazione sociale
In questi mesi si giocherà una partita importante che non possiamo non giocare, dimostrando che non siamo dei disperati, malgrado le ricorrenti rappresentazioni di certa stampa e, purtroppo, anche di intellettuali e politici di una pseudo-sinistra che speravamo alleati e, invece, scopriamo complici di logiche che sostengono la divisione e la marginalizzazione.
La Calabria e il Sud sono già una fucina di progetti innovativi, costruiti dal basso con il coinvolgimento di comunità vivaci, capaci e appassionate. Ne sono testimonianza le tante realtà associative presenti sul nostro territorio che non si propongono solo in termini di resistenza al degrado ma sperimentano concreti modelli di rigenerazione. Queste esperienze, difficilmente rintracciabili anche in ambiti che si autodefiniscono più evoluti, ostinatamente occultate da narrazioni che ripropongono lo stereotipo dell’inefficienza e dell’illegalità, costituiscono già un patrimonio che potrebbe risultare utile all’intero Paese se finalmente ci fosse la disponibilità a guardare al Sud non come al luogo dell’arretratezza, ma come alla nuova frontiera in grado di fornire le soluzioni alle contraddizioni del presente.
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*L’Autore è medico nonché Presidente dell’Associazione Calabrese di Epatologia (ACE) che ha dato vita, tra le altre iniziative, ad ambulatori di medicina solidale nei quartieri di Pellaro ed Arghillà