Il vento del cambiamento che aveva portato nel 1990 alla chiusura dell’Ospedale Psichiatrico di Reggio Calabria sembra essersi fermato. Una storia folle, che vi racconteremo in più tappe
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Tra il 9 ed il 10 novembre del 1989 si verificò uno degli eventi che hanno cambiato la storia del mondo: la caduta del Muro di Berlino: ci vollero ben 28 anni, e morti, e sofferenze e drammi inutili per rompere quella linea di separazione e di oppressione tra est ed ovest.
Pochi mesi dopo quell’evento di portata internazionale, nel luglio del 1990 Reggio Calabria vedeva sgretolarsi – nel suo piccolo- un altro Muro, meno visibile per chi stava fuori dal recinto, ma drammaticamente escludente per chi vi si trovava dentro, perché veniva decretata la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico, una struttura (non a caso definita “lager del Rione Modena) dove erano reclusi e segregati in condizioni disumane centinaia di uomini e donne.
Il “Muro” dell’Ospedale Psichiatrico
Rispetto al Muro di Berlino, per abbattere il “muro” dell’Ospedale Psichiatrico, ci sono voluti meno anni, esattamente 12, visto che è del 1978 la legge 180, meglio conosciuta con il nome dello psichiatra che l’ha anticipata ed ispirata, Franco Basaglia: ma 12 anni dentro quei fetidi padiglioni sono comunque un’eternità.
In un’intervista rilasciata a Maurizio Costanzo, Basaglia ebbe a dire: «Non è importante tanto il fatto che in futuro ci siano o meno manicomi e cliniche chiuse, è importante che noi adesso abbiamo provato che si può fare diversamente, ora sappiamo che c’è un altro modo di affrontare la questione; anche senza la costrizione.»
Chi non è mai stato dentro un Ospedale Psichiatrico, fatica a farsi un’idea del girone dantesco che essi rappresentavano. Un volontario dell’epoca così descrive quello di Reggio Calabria: “Quando ci sono entrato con altri volontari rimasi sconvolto dopo aver visto ammalati abbandonati a sé stessi, stesi seminudi su materassi lerci, su brandine bucate dall’urina; chi urlava, chi ti chiedeva una sigaretta, chi ti fissava muto, con insistenza, senza una parola e senza muovere un muscolo; e poi quell’odore insopportabile di ambienti sporchi ed umidi, i muri sberciati. Quel luogo era una discarica sociale per una malattia che non si sapeva gestire e curare se non attraverso la costrizione personale e dosi massicce di farmaci ottundenti”.
Il 9 luglio 1990 si compiva un grande passo di civiltà. La chiusura dell’Ospedale Psichiatrico non era più una chimera: aprivano i battenti quattro “Comunità Alloggio” a gestione pubblico-privata dislocate in punti diversi della città. Ad ottanta fra uomini e donne, in stato di deportazione da tanti anni, si consentiva, almeno, il diritto di potersi riaffacciare alla vita!
La chiusura del Manicomio era stata una battaglia di civiltà lunga e per diversi motivi durissima, in una situazione drammatica, alimentata da biechi interessi e dal malaffare della malavita più o meno organizzata, con la compiacenza di chi, non sempre privo di interessi, anche economici, lasciava fare.
Sotto la lente d’ingrandimento della stampa nazionale
Alla “nostra” politica, fino ad allora, era interessato poco e niente di quelle donne, di quegli uomini. Sovente interessava invece, e molto, il consenso di personaggi che gestivano ed approfittavano del sistema, in quanto capaci di portare i voti e non solo: un “do ut des” senza scrupoli: chi ha potuto osservare senza filtri le dinamiche dei luoghi, certe immagini non le dimenticherà mai. Ma altrettanto impattanti furono quelle più edulcorate viste alla televisione, sulle reti nazionali, descritte ed illustrate anche sulle pagine di quotidiani e settimanali come “L’Espresso”, “Repubblica”, ecc.… Valga per tutti il titolo de “L’avvenire” del 10 maggio 1988: “Dal silenzio neppure urla! Non sembra, sono uomini: i volti e le immagini della follia di Stato“. Immagini edulcorate, ma devastanti.
Tenere un uomo in quell’inferno costava all’Ente pubblico 460.000 lire al giorno, attualizzati circa 600 euro. Il business più infame, al tempo stesso però sufficientemente cospicuo a ben “giustificare”, nei piani degli autori, il rischio di subire alcune azioni da parte della magistratura (poche in realtà, e solo da parte di qualche magistrato illuminato) e la cattiva fama che scaturiva dalle denunce dei media nazionali più prestigiosi.
Nel teatrino degli orrori si muovevano diversi soggetti, tanto interessati da consentire la sopravvivenza del lager di Reggio Calabria per ben 12 anni dopo l’approvazione della “Legge Basaglia”.
Con Don Italo Calabrò soffia un Vento nuovo
Ma fortunatamente la nostra realtà, da un po’ di tempo era accarezzata anche da un Vento nuovo. Nella società civile della nostra città, nel profondo sud, si muoveva qualcosa di importante, anche di politico, nel senso più nobile, che andava oltre la “politica” come correntemente intesa. Si stava creando un soggetto che guardava al benessere sociale, partendo dalle persone più a rischio di esclusione, superando ogni barriera di Credo e di ideologia.
“Nessuno escluso mai” era molto più che un auspicio, era l’esperienza rappresentata dalla figura carismatica di Don Italo Calabrò che ha portato quel Vento nuovo che si è propagato verso uomini, associazioni ed organizzazioni anche esterne alla Chiesa. Quel Vento nobile, leggiadro, ma anche impetuoso, quando si trattava di mettere le ali ai diritti delle persone escluse od a rischio di esclusione. Quel Vento che non riconosceva sconti a nessuno dei potenti, agli indifferenti, che non guardava colori e appartenenze.
Don Italo è morto il 16 giugno 1990; la Sua Opera aveva consentito, tra l’altro, di spingere definitivamente il Vento verso la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico anche grazie all’azione profetica da lui fortemente voluta attraverso l’apertura pioneristica da parte della Caritas delle prime case per l’accoglienza dei dimessi dell’Ospedale Psichiatrico che vagavano abbandonati per la città: Casa Ospitalità, nel 1981, nei locali della Curia, e a seguire Casa Cassibile ad Acciarello di Villa San Giovanni; nel 1984 Casa Emmaus grazie alla Parrocchia di Palizzi, e ancora a Villa San Giovanni Casa Corigliano nel 1987. Opere “segno” come le chiamava Don Italo, che hanno navigato tra non poche resistenze e difficoltà soprattutto finanziare, tanto da dover essere sostenute in alcuni frangenti attraverso pubbliche sottoscrizioni dalla generosità della comunità civile e di un mondo cattolico quanto mai sensibile ed attento in quel periodo al dramma di questi nuovi poveri.
I “libri di storia” forse ricorderanno che la chiusura del lager di Reggio è avvenuta anche perché l’area interessava ai Carabinieri per la realizzazione della Scuola allievi. Ma chi ha vissuto quell’epoca sa bene che non è stato così.
La svolta del 1990
Quel Vento aveva sospinto con sé… tanti e tanto! Aveva coinvolto in un’unica azione la Chiesa, nonché soggetti tra loro diversi che ora vengono definiti “terzo settore”. Persino alcuni politici, “illuminati”: è d’obbligo ricordare gli assessori della Regione Calabria dell’epoca Rocco Trento (Sanità) ed Augusto Di Marco (Servizi Sociali), che la via dell’inclusione per i pazienti psichiatrici avevano sposato appieno, fino a riuscire ad imporla nell’ente pubblico.
E fu così che, finalmente, con l’apertura a luglio del ’90 di quattro “Comunità Alloggio” a gestione mista pubblico-privato, le sbarre, non solo metaforiche, furono divelte, per i primi ottanta e, poi, progressivamente anche per tutti i circa 400 ricoverati (si fa per dire) rimasti nel manicomio.
Per i dimessi, accolti nelle nuove comunità alloggio, si aprì una fase nuova, come raccontano gli operatori dell’epoca parlando di alcuni di loro.
Di Giovanni, che dopo quaranta e più anni nella gabbia del reparto “Mandalari”, poteva tornare a guardare l’orizzonte, sentire il profumo del mare. Giovanni con grande forza malgrado l’età, lanciava le pietre lontano, a rimbalzo, verso il nulla, forse a voler colpire le infamità subite. La resilienza dei sopravvissuti. Giovanni esprimeva così la sua rabbia, senza cercare vendetta. I suoi aguzzini neanche li conosce. Ma reagisce. E reagiscono tanti altri ex deportati, ognuno con le proprie risorse.
Come Alfonso, che l’uso del verbo non l’aveva certo perso. “Caddi in Fetido Stagno”: iniziava così, una delle sue composizioni poetiche, a descrivere quell’inferno; la sua opera ancor oggi è rappresentata nei teatri d’Italia.
Come Guido, finito da adolescente in quell’inferno, nessuno sa perché. A lui è stata sottratta anche la parola. Annichilito dal sistema. Come tanti altri. Tace sempre, Guido. Solo qualche sorriso accennato, ora che ha potuto sbirciare qualche scampolo di vita. Testa bassa, la alza raramente. Sembra osservare chi gli sta vicino, i suoi compagni. Uno sguardo che dura un attimo, cade, si perde. La testa si riabbassa ed il sorriso si dissolve. Forse al pensiero di come avrebbe potuto essere l’esistenza per lui, e per i suoi compagni di viaggio se non gliela avessero rubata.
Ma perché ,allora, quel processo virtuoso si è inceppato?
Ma dal 1990 fino al giorno d’oggi cosa è successo? Come e perché alla via allora intrapresa, con la territorializzazione delle strutture, non è stato dato seguito adeguato? Perché le strutture psichiatriche esistenti nel territorio reggino sono ad un passo dalla chiusura, mentre non sono stati avviati i necessari servizi sul territorio (centri diurni, assistenza domiciliare) ed al contempo più di 900 pazienti psichiatrici calabresi vengono assistiti fuori regione con ogni conseguenza evidente sul piano dello sradicamento sociale per loro stessi ed i familiari, oltre ad un costo di circa 50 milioni di euro per la Regione Calabria? Come è potuta precipitare così la situazione?
Lo vedremo prossimamente.
Lasciandoci, per ora, con una citazione ed un auspicio.
Se questo è un uomo… la memoria, quel Vento, deve, vuole, continuare a propagarsi.