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Centro Comunitario Agape

Nella bolgia del Pronto Soccorso GOM, tra diritti negati e personale eroico

Quasi due giorni per alcune visite mediche e tre esami strumentali: racconto di un lungo viaggio nella colpevole disorganizzazione di un servizio fondamentale, che si salva solo per l’eroica abnegazione del personale sanitario

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Sono le 11 e 40 di qualche giorno fa. Squilla il telefono, all’altro capo c’è il mio amico Luca. Con voce un po’ preoccupata mi chiede: “Puoi accompagnarmi in Ospedale? Ho qualcosa allo stomaco, non mi sento bene”.

Prendo subito la macchina, lo recupero e andiamo al Pronto Soccorso (PS) del GOM di Reggio Calabria. Luca scende mentre una guardia giurata mi intima subito di sgombrare, devo spostare la macchina perché potrebbe arrivare qualche ambulanza. Vorrei obiettare che in quel momento io di fatto “sono” una sorta di ambulanza, ma lascio perdere. Chiedo a Luca: “Te la senti, ce la fai a restare da solo?”, lui annuisce e io risalgo in macchina e vado a cercare un parcheggio.

Più tardi qualcuno si ribellerà a questo modo di gestire gli accessi. Un signore, sollecitato a spostare la macchina, si rifiuterà replicando: ” Mio padre non si regge in piedi, prendete una sedia e fatelo entrare dal medico e dopo sposterò la macchina, non posso lasciarlo solo”. In sostanza, chi sta male ed arriva in ospedale con i mezzi propri senza impegnare risorse pubbliche come le ambulanze viene subordinato sempre a chi arriva in ambulanza, e deve mettersi in fila.

Ci metto una manciata di minuti a trovare parcheggio e poi raggiungo il mio amico nel grande salone del PS, trovandolo in fila assieme ad altri pazienti (o parenti di coloro che non ce la fanno e sono appoggiati nelle sedie) davanti ad uno sportello a vetri con la grande scritta in blu TRIAGE.

Lo sportello TRIAGE ha due postazioni, ma solo una è occupata da un infermiere, l’altra è vuota, e così rimarrà per tutto il tempo che noi staremo in PS.

Facciamo qualche minuto di fila e finalmente è il nostro turno. L’infermiere chiede a Luca qual è il suo problema, gli fa qualche domanda e poi chiede la tessera sanitaria per registrarlo. In quell’attimo però arriva un’ambulanza del 118 e gli addetti dell’ambulanza entrano nel box del Triage. La procedura di registrazione di Luca si interrompe, l’infermiere deve prima prendere in carico il paziente arrivato con l’ambulanza. Finito col 118, Luca viene registrato, codice verde, sono le 12 e 40.

Codici, colori, tempi di attesa

Alle pareti del salone è affisso un cartello che spiega i tempi di attesa relativi a ciascun codice: Rosso vuol dire massima urgenza, il paziente ha immediato accesso; Arancione è urgenza modesta, l’attesa non deve superare i 15 minuti; Azzurro è urgenza differita, tempo di attesa massima un’ora; Verde è urgenza minore, tempo di attesa massima 2 ore; Bianco è non urgenza, gestibile entro massimo quattro ore.

Il salone è pieno di gente in attesa, guardo Luca e gli chiedo: “Come va? Ce la fai a resistere un paio d’ore?” Luca mi dice di sì, sta leggermente meglio, ce la fa.

Comincia così la nostra attesa, che purtroppo sarà molto più lunga del previsto.

L’infermiere uno e trino

Mentre Luca, un po’ dolorante, se ne sta su una sedia a smanettare con lo smartphone, io mi avvicino al box del Triage per capire come funziona l’ambaradan del PS. Davanti all’unico infermiere ci sono sempre in fila almeno quattro/cinque nuovi arrivati. Alle 13 e30 capisco anche il perché è difficile ridurla: arrivano quasi in contemporanea due ambulanze e quindi l’infermiere deve gestire i due gruppi di paramedici che si catapultano nel suo box per le incombenze del caso, e così la fila dei pazienti giunti autonomamente si riallunga. La stessa cosa accade anche quando arriva qualche paziente con problematiche che richiedono un elettrocardiogramma o la misurazione della pressione: è sempre lo stesso infermiere del Triage che si alza, va nel retro ed effettua queste prestazioni, e la fila si riallunga.

Sono ammirato dalla pazienza dell’infermiere e dalla sua capacità di gestire il tutto, ma non riesco a spiegarmi come mai riesce anche ad essere allegro e sorridente; poi guardo l’orologio e mi accorgo che mancano due minuti alle 14, fine del turno: l’infermiere ha proprio ragione ad essere contento!

Cambio turno

Alle 14 al Triage monta la nuova infermiera. La sala è piena di persone in attesa, chi ce la fa ogni tanto esce nel cortile adiacente, gli altri aspettano di essere chiamati dal medico seduti o appoggiati alle sedie distribuite su tutto il perimetro della grande sala.

Alle 14 c’è anche il cambio medici, e la guardia di servizio davanti agli ambulatori ci avverte che almeno per 15 minuti le chiamate si fermeranno, perché  i medici che montano di servizio devono prendere le consegna da chi smonta.

Ormai siamo prossimi alle due ore da quando siamo arrivati. Ma io e Luca, dopo aver appreso che alcuni sono in attesa dalle 10 del mattino, quindi ben prima di noi, non ci facciamo tante illusioni su una imminente chiamata per la visita medica d’ingresso.

Un parente, visibilmente stanco, torna al Triage e chiede: “Scusate, mia sorella con che codice è registrata, e quanti ce ne sono prima?. L’infermiera risponde pazientemente che prima ce ne sono quattro, e che tuttavia il numero di quelli che la precedono è virtuale, perché può sempre arrivare qualcuno più grave a cui bisogna dare la precedenza.

Così, agli occhi di gente esausta, man mano che passano i minuti e le ore, il cartello dei tempi di attesa previsti in base ai codici appare una inutile presa in giro.

La sala d’attesa come una piazza

In sala d’attesa si sta gomito a gomito, e chi è in fila per essere accettato, deve riferire davanti a tutti, in barba a qualsiasi elementare norma di tutela della privacy, qual è il suo problema di salute: dalla signora che domanda come mai il marito disabile non è stato ancora visitato, all’operaio che a precisa domanda risponde che si è fatto male al ginocchio al lavoro; dalla donna che lamenta lancinanti dolori al ventre e che malgrado sia senza pancia  deve far presente di essere incinta, al signore che ha la sacca delle urine in mano e davanti a tutti sollecita che gli facciano qualcosa perché ha un gran bruciore dovuto sicuramente al fatto che il catetere si è otturato.

Tutto viene esposto in pubblico, come la condizione di una donna che arriva accompagnata dal figlio che segnala all’infermiera del Triage : “Mia Madre non tiene in piedi, non mangia da due giorni”, e l’infermiera di rimando : “Non mangia perché è gonfia, avete visto com’è in pancia?” E il figlio: “E’ sì, è stitica, è sempre stata stitica”.

Intorno alle 16 e 30, un giovane che ha avuto un incidente stradale è in fila con una mano sanguinante, al che l’infermiera del Triage gli dice di accedere alla stanza delle urgenze dietro di lei, si alza e va a medicarlo.

Intanto in una delle sedie del salone, una signora anziana con probabile frattura del braccio, da due ore di attesa, ha un mancamento, ed a quel punto la mettono su una lettiga.

Eppur si muove

Finalmente, poco dopo le 17, Luca entra in sala visite; il medico dispone gli esami del sangue, visita otorino e tac.

Mentre lui è a visita, io seguo i tentativi di alcuni che – sempre più  impazienti per la lunga attesa- cercano di superare la porta che li separa  dagli ambulatori medici.

I tentativi sono arginati dalla guardia che, davanti alle continue insistenze di una signora che si lamenta di essere in attesa da tre ore, risponde: “Signora, voi giustamente parlate con me perché mi vedete qua, e cercate uno sfogo e io faccio da parafulmine. Ma  che vi posso dire? I medici sono dentro e stanno lavorando, purtroppo sono due, ce ne vorrebbero quattro, ma sono due, già tre sarebbero pochi”. E la signora di rimando: “Ma un’ora fa mi avevano detto che ero la prima in attesa”; e la Guardia: “Ma qui si entra in base all’urgenza, se arrivano casi più urgenti entrano prima”. A questo punto il marito della signora dice: “Ma lei ha un dito rotto…” e la Guardia: “Ma voi siete un medico? Non siete un medico e nemmeno io, ci sono i medici e gli infermieri a valutare, le procedure sono così”.

Sono ormai cinque ore che siamo in Ospedale, però ora le cose sembrano andare più velocemente. Dopo la prima visita, alle 17 e 50 Luca ha la visita otorinolaringoiatrica. La speranza è che al più presto gli facciano anche la TAC, così magari in serata stessa si chiariscono i contorni del problema e si torna a casa.

Mai essere troppo ottimisti

Il nostro ottimismo, però, sarà ben presto mortificato dalle lunghe attese tra un accertamento e l’altro.

Alle 21, mentre c’è il nuovo cambio di turno e subentrano i medici che faranno la notte, Luca va in Radiologia per la Tac. Alle 22 Luca chiede al medico di turno informazioni sull’esito della TAC, ma la risposta è che il referto non è ancora arrivato dalla Radiologia. Stessa risposta gli viene data alle 23. A questo punto io decido di salire su al reparto di radiologia, dove sollecito la refertazione della TAC. Il personale presente mi rassicura e mi dice di tornare al PS, io però dico loro che aspetterò fuori, nell’androne, fino a quando non mi comunicheranno che il referto è stato inviato al medico del PS, cosa che avviene intorno alla mezzanotte. A quel punto chiamo Luca e gli dico: “Avverti il medico che il referto è stato inviato”.

All’una di notte, il medico del PS chiama Luca e gli comunica che ,vista la TAC, si rende necessaria una visita pneumologica, ma purtroppo lo specialista sarà reperibile solo l’indomani mattina. Nel frattempo gli metteranno a disposizione una barella per riposare nello spiazzo antistante la sale visita, dove peraltro già sono presenti altre cinque barelle.

Do la buonanotte al mio amico e vado a casa a riposare un po’.

Il giorno dopo è più o meno come quello prima

Il secondo giorno non comincia tanto bene: a sostituire il medico di notte arriva una dottoressa cubana che ha qualche evidente difficoltà con la lingua italiana. La comunicazione è difficoltosa e si riduce per tutta la mattinata, ogni volta che Luca sollecita la vista pneumologica, in un’unica risposta: “Aspettare, bisogna spettare” (testuale).

E così, mentre Luca aspetta, io riprendo la mia osservazione su quello che succede nella sala d’attesa del PS.

Già dalle prime ore della mattinata l’afflusso è notevole, cominciano a ricrearsi le file al Triage, dove non mancano i momenti di tensione che, a volte sfociano in violente aggressioni verbali nei confronti degli operatori sanitari di sportello. Come quando due genitori che hanno portato direttamente il loro bambino in Pediatria prima ancora di effettuare la registrazione al Triage, impediscono ad una mamma con in braccio una piccola di avere la precedenza. L’infermiera addetta al Triage cerca di spiegare che essendo il primo bambino già in reparto è opportuno registrare la nuova arrivata per fare andare anche lei subito in reparto. È allora che si scatena l’inferno di grida e minacce. La mamma del primo bambino, evidentemente in stato di stress, urla “Fate schifo, siamo prima noi” ed inveisce contro l’infermiera minacciandola. E quando l’infermiera la invita a moderare i toni avvertendo che altrimenti sarà costretta a chiamare i carabinieri, il marito si associa all’aggressione verbale e, sbattendo un tesserino sul vetro, replica: ” E chiamali, chiamali e poi vediamo; lo vedi questo? Ministero dell’Interno, colleghi miei sono”. Ci vorrà l’intervento perentorio ed energico di un infermiere uomo a rimettere in riga i genitori esagitati e ad indurre il marito a trascinare fuori la moglie ancora urlante: “Vergognati!, dimmi come ti chiami, dimmi come ti chiami che ti ammazzo, io ti ammazzo…”

Come se non bastasse, dopo una mezz’ora si presenta un paziente che protesta energicamente e che viene inviato in sala urgenze dopo un animato scambio con l’infermiera allo sportello alla quale chiede : “Chi è qui il Direttore? Dimmi come si chiama il direttore”, e l’infermiera : “Non lo so, io sono qui per fare il mio lavoro”; e il paziente, di  rimando: “Comu, non sai cu’ ti’ cumanda?( come, non sai chi ti comanda? Ndr). Io mi sento male, se cado a terra e mi sento male vi mando in tribunale”.

Niente alibi per i responsabili

Alle 13 e 15 del secondo giorno, dopo ripetute sollecitazioni, Luca viene inviato a visita pneumologica.

Alle 14 per fortuna c’è il cambio turno. Arriva un medico molto disponibile e dialogante, il quale comunica a Luca che c’è un ultimo accertamento da fare, una visita cardiologica, per la quale -precisa- non essendoci una situazione urgente, ci sarà da attendere ancora alcune ore. Ed effettivamente la chiamata per quest’ultima visita arriverà alle 18 e 30.

Luca, infine, uscirà dall’Ospedale alle 19 e 23, cioè trentuno ore dopo l’ingresso!

Qualche annotazione finale su questa sfibrante esperienza.

I tempi dilatati della presa in carico dei pazienti non urgentissimi e della loro successiva gestione sono causati dalla carenza di medici, ma anche da una organizzazione complessiva dell’intero Ospedale che fa acqua da tutte le parti, visto che tra un accertamento e l’altro occorrono in media 4/5 ore.

La gestione di tali pazienti avviene in aperta violazione di diritti fondamentali relativi alla tutela della salute e della privacy, e mette a rischio la sicurezza ed il benessere psicofisico del personale medico e paramedico, che è insufficiente, sottoposto a turni massacrati ed esposto a ripetute aggressioni verbali ( e qualche volta fisiche)  da parte di cittadini esasperati o gratuitamente violenti. E ciò malgrado il grande lavoro, l’abnegazione e l’impegno straordinario del personale sanitario, che in numero assolutamente insufficiente fa i salti mortali per dare risposte al bisogno di salute delle persone.

Dopo aver osservato per quasi due giorni come vengono gestiti al PS i pazienti non urgentissimi, mi sono fatto una domanda: ma i diretti responsabili di questo sfascio, e cioè il Direttore generale ed il Direttore sanitario del GOM, ogni tanto se lo fanno un giro nel reparto per rendersi conto delle problematiche dei pazienti e delle condizioni difficilissime in cui opera il personale?

E la mia risposta è no, non credo che ci mettano piede, se non raramente, altrimenti dovrebbero essere i primi a considerare insopportabile una situazione così degradata e trarne le dovute conseguenze: risolvere i problemi o dimettersi.

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